Lucaweb Posted October 7, 2008 Posted October 7, 2008 di Massimo Turconi Orzare, strambare. Scivolare, passare, tirare. La distanza tra il primo e il secondo gruppo di verbi è enorme, roba da doversi misurare in miglia marine, quasi a voler annullare ogni punto di contatto tra la vela e la pallacanestro. Mondi sportivamente inconciliabili a meno che si abbia avuto la stessa fortuna di Cecco Lenotti. Il "nuovo"preparatore atletico della Cimberio Varese, un giorno, poté mettere da parte il pallone da basket per imbarcarsi, è il caso di dirlo, in una straordinaria avventura come l'America's Cup di vela. Trentasei mesi spesi a veleggiare intorno al mondo, passati a imparare uno sport e un linguaggio nuovi, hanno restituito al basket un Lenotti carico come una molla. Il solito fisico, sempre leggero e scattante, le braccia, sempre scolpite e il capello, sempre lungo, in bilico tra Iggy Pop e Anthony Kiedis: il professor Lenotti rientra in un "giro" cui mancava da circa quattro anni (ultime stagioni con coach Beugnot e Dodo Rusconi ndr) ma soprattutto quelle dimissioni di fine dicembre '99, dopo lo scudetto della Stella, che assomigliano a un ferita mai rimarginata. «Me ne andai, allora, per rispetto verso Cedro Galli sul quale - ricorda Lenotti -, si addensarono tutte le nubi di quel periodo e che, erroneamente, venne individuato come il responsabile assoluto del "disastro" post-stella. Me ne andai anche per rispetto verso me stesso e il mio lavoro perchè, immersi com'eravamo in un clima assolutamente ingestibile, diventò impossibile fare alcunchè». - "Lenotti 2, il ritorno", avvenne qualche anno fa, se lo ricordano in pochi... «Probabilmente perchè c'è davvero poco da ricordare in formazioni caratterizzate da un via-vai di stranieri, degno d’un sala d'attesa di aeroporto. Non a caso anch’io ho nella testa ben pochi nomi dei giocatori di quelle stagioni anche se, nonostante le difficoltà, io e Beugnot lavorammo tranquillamente e Greg, evidentemente, apprezzò la mia opera dal momento che mi volle al suo fianco anche a Chalon». - Dopo la parentesi d’Oltralpe, la “folgorazione” di +39, uno dei consorzi italiani, per la sfida a Bertarelli e al suo Alinghi... «Con un consorzio a fortissima matrice varesina, basti citare Sogliano, Carletti, Maroni e il compianto Malerba, fu quasi naturale rivolgersi al sottoscritto per curare la preparazione atletica dei velisti. Non posso dire altrettanto per me che, fino al 2004, associavo la vela a qualche gita fuori porta e, al più, ad un pomeriggio passato a prendere il sole. Invece mi accorsi che dietro al fenomeno vela c’è un equipaggio che va seguito, curato sotto il profilo della preparazione fisica». - Così, finalmente, grazie a Lenotti, potremo svelare il segreto dei “coffe grinder”… «Credo che intorno a queste figure - spiega Lenotti -, s’è fatta un po’ di “mitologia” assegnando loro il ruolo di Superman della barca. In tanti casi sono grossi da far paura ma il loro compito, in un regata che comprende 10-15 manovre tra virate e strambate, si riduce a uno sforzo massimale nell’ordine di 10-15 secondi per manovra. Molto più accurata dev’essere la preparazione del prodiere che, a mio avviso, è il vero atleta della barca dovendo correre avanti e indietro per lo scafo, piegare le vele, salire sull’albero e fare altre cose in perfetta sincronia di tempi col timoniere. Ad ogni modo, l’esperienza in Coppa America mi è servita per accrescere il mio bagaglio professionale perché venendo da sport di squadra completamente diversi sotto il profilo dinamico mi sono dovuto inventare un metodo di lavoro che andasse bene anche i velisti». - Quest’esperienza che cosa le ha lasciato umanamente? «Sicuramente è stata incredibile e irripetibile perché per 3 anni - 8 mesi a Palermo, il resto a Valencia -, ho vissuto in un mondo a parte. Una sorta di “bolla” dentro cui ci si trova isolati per circa 16 ore al giorno e si parla, si pensa e si agisce solo in funzione della vela. Un periodo di grossi sacrifici anche per la mia famiglia dal momento che in 36 mesi sono tornato a Varese non più di una decina di volte». - Adesso, rieccola nel basket: sorpreso per la chiamata? «Se devo essere sincero me la sarei aspettata di più lo scorso anno, appena tornato dalla Spagna. Ormai non ci pensavo quasi più e, non per nulla, avevo iniziato a lavorare ad un altro grande e fresco amore: il rugby. Poi, nel giugno scorso, i primi abboccamenti con Vescovi e Ferraiuolo e, in seguito, l’accordo». - Quale spirito l’accompagna? «Sono animato dalla filosofia di sempre: quella di lavorare insieme coi giocatori per provare a migliorare qualità fisiche e atletiche che, nel basket moderno, sono letteralmente indispensabili ma senza mai ricorrere a scappatoie che sembrano essere tanto in voga perché – commenta sereno Lenotti -, sarò della vecchia scuola, ma resto saldamente ancorato all’idea che senza fatica, sacrificio, massima applicazione non si ottiene nulla». - E Cecco, giusto per essere un uomo d’azione, più che di parole, nei primi giorni di preparazione, in testa al gruppo, ha “macinato” le colline del Golf di Luvinate. Tra i giocatori arrancanti dietro le sue gambe da gazzella c’è Fabio, suo figlio, classe ’92, aggregato alla prima squadra. «Nessun favoritismo nei suoi confronti, solo un briciolo di orgoglio paterno e tanta felicità per lui che coi suoi compagni Bianchi e Terzaghi, stanno vivendo un sogno. Un bel premio per ragazzi di 16 anni che mangiano ancora pane e basket».
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