Lucaweb Posted July 1, 2009 Share Posted July 1, 2009 di GIANCARLO PIGIONATTI L’uno volteggiava graziosamente in area, come una farfalla, l’altro scoccava dardi avvelenati, sembrando più una macchina da guerra che un fior d’atleta. Manuel Raga e Bob Morse hanno fatto la storia di Varese, quella mitologica per imprese e titoli. Il destino però volle che l’uno rubò il posto all’altro, potendo i due assi convivere tutt’al più in Coppa dei Campioni. Il nostro campionato ammetteva solo una faccia da straniero, cioè e fatalmente quella di Bob Morse che il professor Aza Nikolic impose, con un po’ di cinismo e molto coraggio a una "piazza" follemente innamorata del suo messicano, capace com’era di galleggiare a mezz’aria per battere le difese avversarie. Proprio diciannove anni fa, era la fine di maggio, Bob - come un angelo caduto dal cielo - spuntò a Masnago per scoprire quei veli che "trattenevano" a dispetto di ogni immaginazione il suo spaventoso potenziale. Lì per lì i tifosi, incuriositi e affranti, restarono con i propri crucci, soprattutto dopo il primo tempo di un’amichevole: questione di minuti perché nei venti che restavano l’americano del 1951, piazzando un inesorabile 10/10 da una distanza che oggi varrebbe 30 punti comodi, polverizzò tanti atroci dubbi. Si arresero anche gli ultimi romantici cantori di Manuel, quelli che tiravano notte tra il caffè Pini e lo Zamberletti, su pulpiti in libertà. "Vox populi" ma non "vox dei", avendo già deciso senza esitazioni il professore. Il quale, nella sua maniacale ricerca di perfezionismo per una Ignis che potesse dominare stabilmente l’"odiato" Simmenthal Milano, aveva ragione da vendere nel puntare su Morse, semplicemente "mostruoso", gare facendo, tra l’imperversare della sua cerbottana e lo scivolare senza far rumore tra rigidi e inviolabili schemi, capace di scaldare il cotone da ogni mattonella. Le movenze di Bob ingannavano, soprattutto gli avversari, infinocchiati ogni volta dall’americano di Varese, in "scivolamento" lungo la linea di fondo o in sospensione, al tiro, sempre e inconfondibilmente, da "ralenty" mascherato, vista la sua rapidità d’esecuzione. I bottini di Morse erano ridenti mietiture, puntuali e ripetitive, annunciate e inevitabili per gli avversari in Italia e in Europa, anzi nel mondo. Restano le sue cifre a inebriarci ancora: 8174 punti in 645 gare. Le statistiche non erano ancora scienza applicata per addetti ai lavori ma le sue medie e percentuali erano impressionanti a occhio nudo: raffiche di punti con nonchalance. Quell’extraterrestre s’era posato, non per caso, su Varese. Bob risolveva e trascinava la squadra nelle segnature, disarmando gli allenatori avversari che parevano abituati, anzi rassegnati alle sue schioppettate, a tal punto da mettere in preventivo, pronti via, almeno 20 punti sul proprio groppone. In verità Morse era anche un asso di tempismo, capace di leggere il gioco e di intuirne ogni sviluppo, peraltro super nel rimediare quei rari errori al tiro con un portentoso rimbalzo e un canestro da sotto. Varese era una tribù a parte grazie a una serie di grandi giocatori, ciascuno leader nella sua zona di campo e a quell’"iradiddio" qual era Bob: perfetta era l’alchimia di quello squadrone che il mondo faceva tremar. Morse era nato non sotto un cavolo ma sotto un canestro, per la verità era cresciuto nel campetto di casa dove il babbo, come ubbidendo a un destino già "disegnato", gli costruì un rudimentale ma prezioso tabellone. Bob mi raccontò la sua storia di ragazzo votato al basket durante il ritorno in pullman da Bologna dove la Mobilgirgi aveva conquistato superbamente lo scudetto nella seconda gara di finale. Era il 24 aprile del 1977: Sinudyne - Mobilgirgi 79-91. Fu un’ovazione per Varese, tranquillamente "abbracciata" da seimila spettatori felsinei che s’erano fatti una ragione plausibile della loro resa. Ricordo ancora oggi il sindaco di Bologna, il famoso Zangheri, in piedi ad applaudire, come ricordo le scarpe da gioco lasciate da Dino Meneghin negli spogliatoi che poi raccolsi, ignaro del suo scaramantico gesto d’ogni fine stagione, riportandone poi, convinto dal centrone varesino, nello stanzone. Già, quel ritorno a Varese può fa pensare, per emozioni così diverse, anzi opposte a quelle di oggi, d’un mondo nel quale anche un soffio di vento ha l’effetto di un uragano, tant’è che quella squadra, assuefatta ai trionfi, pareva persino non tradire la felicità dell’animo, al di là di un Meneghin gaudente, per sua natura. Morse, imperturbabile, come sul campo, mi raccontava della giovinezza nella sua Pennsylvania tra libri e canestro. Fioccavano gli uno contro uno, avversario il fratello, anche d’inverno sino alle prime tenebre, tant’è che il padre, impietositosi, trasformò lo spiazzo di casa in una specie di palestrina per dire più propriamente di un capannone illuminato. Nel quale Morse, dedicandosi il fratello ad altre faccende, di cuore, si ritrovò solo, costretto così a tirare, per ore e ore. Ecco spiegato il suo segreto... Morse, ogni volta atteso ai grandi appuntamenti, tradì solo una volta e se ne ebbero i segni d’una sconfitta amara nella finale di Coppa dei Campioni che si giocò il 7 aprile del 1978 a Monaco: Real Madrid - Mobilgirgi 75-67. Il tecnico madrileno, sguinzagliandogli alle costole, se non ricordiamo male, il lungo e ruvido Prada, azzeccò la mossa: incredibile ma vero. Da campione ha vinto un’enormità di sfide e da grand’uomo le sofferenze di malattie: Varese accoglie Morse come cittadino onorario e prediletto, riconoscente delle sue gesta in sfide che l’hanno resa famosa nel mondo. 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