Lucaweb Posted April 19, 2010 Share Posted April 19, 2010 Novembre 2009 di Massimo Turconi Il pallone da pallacanestro è sullo sfondo. Quasi assomigliasse ad uno di quei commoventi tramonti estivi sulla linea dell’orizzonte marino, ma Gesù Cristo, grazie a Jobey Thomas, è in mezzo a noi. Chiacchierare con Jobey è una buonissima esperienza, che non ha niente di mistico, né offre il senso della trascendenza, ma regala entusiasmo e trasmette una contagiosa gioia di vivere perché, te ne accorgi subito, l’uomo ha dentro di sé una grande, invidiabile, serenità. Anche nei momenti, piuttosto duri, in cui un dolore al piede lo sta massacrando e sembra volerne mettere in dubbio la durezza mentale e sbriciolare le certezze. <E’ ovvio: non mi piace giocare in questo stato fisico perchè il dolore non mi permette di allenarmi e lavorare come vorrei e – dice Thomas -, la frustrazione per non poter essere di grande aiuto alla squadra, ai miei compagni e a me stesso in questo periodo difficile per Varese è palpabile e presente. Però, scacciato con forza quel pizzico d’umana debolezza, penso sempre che queste sono prove, anzi, sollecitazioni che il Signore mi manda per invitarmi a non mollare, a non farmi prendere dallo sconforto, a continuare a credere in Lui, sapendo che nella Parola troverò un punto fermo, un riferimento saldo>. Non fosse perché, di mezzo, c’è sempre la “benedetta” pallacanestro, quello tra Jobey Thomas ed il sottoscritto potrebbe essere tranquillamente scambiato per un dialogo sull’importanza della fede. Sul perché, come disse qualche anno fa un famoso filosofo, non possiamo non dirci cristiani. Jobey, prima che un eccellente giocatore di pallacanestro è una bellissima persona, per nulla complicata o bacchettona. E’ un uomo che vive la sua religiosità nella maniera corretta: un fatto esclusivamente personale, mai esibito, mai invadente, mai urlato. Un po’ distante, insomma, dai “professionisti” della fede (niente nomi, please…) che, nel corso degli anni, mi è capitato di incontrare a Varese Gente che girava per gli spogliatoi con crocifissi fosforescenti, tatuaggi giganteschi e ti si rivolgeva con lo stesso stile del Telepredicatore. Jobey, che appartiene agli “Atleti di Cristo” – Kakà, Casey Shaw, Guzman e un centinaio di altri importanti professionisti in varie discipline sportive -, è per fortuna distante anni luce da questo stile un po’ pacchiano e, nel merito, le sue considerazioni sono, per così dire, “delicate”. <Mi sono avvicinato alla fede, quella vera, negli anni trascorsi all’Università, grazie ad un compagno di squadra e di studi. Lui, con parole semplici, ma profonde e significative, mi svelò che la vita, il mondo, i rapporti, tutto ciò che ci circonda, possono essere letti, vissuti, interpretati in altro modo. La Parola di Dio mi ha cambiato come persona, rendendomi più sereno, consapevole e soprattutto è servita a sostituire quella che era la mia unica ragione di vita, il basket, con un pensiero più pieno, completo e maturo perché la pallacanestro un giorno, speriamo lontanissimo, finirà e ci sarà comunque un’altra vita tutta da vivere. Sarebbe un peccato, probabilmente una delusione, arrivare impreparati a quel giorno>. - In tanti mi dicono che la fede, il credere, aiuta ad essere più buoni… - <Anch’io la penso così e – sorride timidamente Jobey -, credo di esserlo diventato anch’io. Ma questa considerazione, sul mio conto, sarebbe giusto girarla a chi mi conosce di più e, nel corso degli anni, ha avuto modo di notare il mio grande cambiamento>. - - Jobey Thomas si stupisce un po’ quando gli dico che ricordo bene il suo movimento religioso, quelli degli “Atleti di Cristo”, per averlo visto in azione ai Campionati del Mondo di Manila addirittura con la maglia degli USA. Era un’epoca in cui gli americani, ben chiusi nella loro torre eburnea, quasi infastiditi da ciò che accadeva intorno, rifiutavano praticamente di partecipare a manifestazioni internazionali organizziate dalla FIBA che non si chiamassero Olimpiadi. Nella capitale delle Filippine gli USA mandarono una curiosa compagnia di giro, appunto gli Atleti di Cristo, che prima e dopo la partita e durante l’intervallo anziché fare riscaldamento, rivedere tattiche e caricarsi psicologicamente, facevano opera di proselitismo in tribuna. Preso spunto da questo episodio dico a Jobey che il campo da basket non mi sembra esattamente il luogo migliore per mettere in mostra bontà, fratellanza e spirito di condivisione… - <E infatti non lo è per nulla: per questo il mio esercizio di fede è un fatto privatissimo che riguarda me e la mia famiglia. Il campo da basket è invece lo spazio per la passione, l’agonismo, la voglia di vincere e primeggiare>. - - Qualità che, mi dicono tutti, in te abbondano… - <Lo sport, nel rispetto degli altri e delle regole, è competizione assoluta e a me piace soprattutto questo aspetto. Nella battaglia, nel clima da ultima spiaggia, sono capace di esaltarmi e più la pressione sale, più mi diverto . Sono un lottatore nato e, per me, ogni partitella d’allenamento si trasforma nella finale di Eurolega durante la quale spendere tutto me stesso con un’etica del sacrificio che, piacevolmente, mi consuma>. - - Mi raccontavi che lo scorso anno, all’Armani Jeans, ti sei consumato per altre ragioni… - <Intendiamoci: a Milano, sotto diversi punti di vista, sono stato bene, ma se parliamo delle soddisfazioni ricevute come giocatore, proprio non ci siamo. Durante la stagione, da un certo punto in avanti sono stato accantonato, ma non per questioni tecniche quanto, piuttosto, per ragioni “politiche” e di interesse legate ad alcuni giocatori che, per forza, sembrava dovessero stare in campo più di altri. Poi, per fortuna, il tempo, che è galantuomo, mi ha offerto, proprio durante i playoff, di scendere in campo con una certa continuità e l’essere stato considerato tra i migliori giocatori della serie-scudetto mi ha ripagato di tantissime amarezze>. - Amarezze che Jobey Wayne ha sempre annacquato grazie al calore sprigionato dalla sua bellissima famiglia: la moglie Mary Kristin e le figlie Isabella ed Elisabetta. - <Abbiamo voluto regalare alle nostre figlie un nome italiano perché sono nate nel vostro paese ed è giusto che portino questo bel ricordo per tutta la loro vita>. - - A Varese per… ? - <Sarebbe troppo facile risponderti “Per fare bene”, ma in questa affermazione, così semplice, sono racchiuse tutte le mie motivazioni. Mi sono messo alla spalle una stagione poco felice, piena di alti e bassi, ed ora ho solo voglia di produrre il massimo possibile per la Cimberio aiutando società, squadra e compagni a realizzare i sogni e i progetti. Il gruppo è composto da buonissimi ragazzi e la presenza di un coach che stimo come Pillastrini e di due grandi amici come Randy e Ron rende tutto più bello e gratificante. In tutta sincerità, non so dire dove potremo arrivare, ma so benissimo che a Varese ci sono giocatori buoni, ma soprattutto persone di alto profilo. Con loro, e insieme a tutti i tifosi di Varese, che voglio ringraziare per la splendida accoglienza, sarà bella tagliare il traguardo…>. Link to comment Share on other sites More sharing options...
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