
E’ arrivato il “pacificatore”, che nella fredda provincia lombarda del basket è elemento talvolta indispensabile quanto un pivot dotato di movimenti fluidi spalle a canestro o una guardia con il fuoco sacro nei polpastrelli. Nella nobile Varese - causa un dna invidiabile che ha però il difetto di rendere ancora più pesanti le macerie dei terremoti cestistici – le sconfitte hanno il potere di trasformare gli abitanti ammalati di pallacanestro in guelfi e ghibellini sempre pronti a scontrarsi tra loro, armati fino ai denti di idee l’un l’altra contrapposte e di un disfattismo perennemente “bartaliano” («gli è tutto da rifare»).
Attilio Caja, con quel sorriso che fuori dal campo (ma anche sul parquet eh: basta fare come dice lui) si apre spesso e anche volentieri, con quella sicurezza da uomo che ogni giorno si alza dal letto e va a fare la professione che ama, con il magistero di un’esperienza che ha sportivamente conosciuto apoteosi e disgrazie, per un guazzabuglio del genere è semplicemente “nato pronto”. Ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni sua intenzione – tecnica, tattica, umana – tende a ricompattare ciò che è dilaniato dalle divisioni, a restaurare senza pretendere nuovi materiali per farlo, a non dimenticare nessuno sotto un’ala protettiva che prova ad estendersi ben oltre il rettangolo di gioco, aspirando alle anime. Leggete questa intervista: “l’Artiglio” cita tutti (giocatori, staff, tecnico, società, consorziati, tifosi), ma solo perché nella sua missione ci deve essere effettivamente posto per tutti. Altrimenti non funziona. Il “salvare Varese” non è solo una questione di meccanismi tecnici da aggiustare con l’unica ricetta possibile, quella del lavoro: è un’opera di cesello soprattutto psicologico, che richiede entusiasmo, assenza di timore, savoir faire e furbizia.
Varese parte seconda, ventiquattresimo giorno: un bilancio, coach?
L’analisi da fare deve essere di due tipi. Dal punto di vista sportivo sono personalmente rammaricato per non aver ancora ottenuto una vittoria casalinga e per non aver ancora strappato un successo in campionato: i risultati non mi possono quindi soddisfare. E, come ho detto l’altro giorno ai consorziati, il rammarico è anche più grande perché intorno a me ho percepito fiducia e aspettative che mi fanno sentire ancora di più la responsabilità di far bene. Dal punto di vista del lavoro svolto, invece, posso dire che le problematiche da affrontare sono state oggettivamente molte (altrimenti non sarebbe stato necessario un cambio di allenatore) ma che, tutti insieme, non abbiamo perso un minuto, cercando di spingere. Ho trovato enorme aiuto da tutti i collaboratori e, in particolare, dallo staff tecnico. Ho chiesto ai miei assistenti grandi sacrifici, come lavorare durante tutte le vacanze natalizie, e loro ne hanno capito l’esigenza, rispondendo in modo positivo. Lo stesso vale per i miei giocatori: è stato un piacere lavorare con loro, apprezzarne – anche in questo caso – il sacrificio e vivere il clima positivo che si respira in palestra. Le cose non riescono ancora sempre bene? E’ fisiologico.
Lei punta molto sulle sedute video, oltre che al lavoro sul parquet, aspetto sottolineato positivamente anche da Eric Maynor in una nostra recente intervista. Perché sono così importanti per lei?
Il tempo per lavorare non è infinito e io non posso permettermi di “ammazzare” i giocatori con due ore e mezza di ripetizioni sul campo. Con i video, allora, riesco a far capire loro cosa voglio, ciò che fanno bene e ciò che invece sbagliano: si tratta di teoria, indispensabile prima di affrontare la pratica. E poi c’è un altro motivo: reputo molto più importante sottolineare gli aspetti del nostro gioco che non quelli dei nostri avversari. Mi interessa correggere quello che noi facciamo e con il video è possibile, perché davanti all’oggettività delle immagini le chiacchiere stanno a zero. Ho sempre creduto molto in questo sistema, ricavandone ottime risposte. Anche la vittoria in Polonia nasce dai video: contro il Rosa abbiamo giocato anche meglio di quanto mi aspettassi.
Due possono essere – tra gli altri – i grandi temi tecnici della Openjobmetis che si appresta ad affrontare la seconda parte della stagione: la compatibilità Maynor-Anosike, data da più parti come una scommessa ormai persa, e l’utilizzo di Giancarlo Ferrero nel ruolo di ala forte, cercando in tal modo anche di sopperire all’assenza di Luca Campani.
A Ferrero da “4” ho iniziato a credere vent’anni fa, quando presi Alessandro Tonolli da Brescia, dove giocava ala piccola, e lo portai a Roma, trasformandolo in un secondo lungo: mi piacque la possibilità di aggiungere un giocatore che – dalla posizione di “4” – garantisse perimetralità alla squadra, avesse la possibilità di attaccare il canestro dal palleggio in uno contro uno e liberasse l’area per il centro. Con Ferrero vale lo stesso ragionamento, e Giancarlo ha anche delle qualità morali per portare a termine il compito, necessarie perché dovrà giocare contro avversari più alti e più grossi di lui, prendere i rimbalzi, correre… Può farlo, ha cuore e possiede anche una discreta tecnica. E, per salvarsi, la prima caratteristica serve ben più della seconda: io ho bisogno di gente pronta soprattutto dal punto di vista caratteriale.
Maynor-Anosike?
Oderah è un tipo di giocatore ben preciso: in attacco non può essere innescato “in altezza” (come un Pelle o un Jefferson), ma dandogli la possibilità di sfruttare il fisico per tenere dietro di sé il difensore. E per farlo è necessaria una squadra che giri molto la palla e crei delle triangolazioni. Non vedo quindi un discorso di compatibilità tra lui ed Eric, quanto una questione di gioco complessivo, che per il momento non è perfetto. Ma sarei un illuso se pretendessi la perfezione in così poco tempo.
La vittoria conquistata in Polonia ha regalato all’ambiente un sorriso che mancava da tempo, lasciando al contempo aperta anche la speranza di una qualificazione alla seconda fase di Fiba Europe Cup. La piazza si divide: c’è chi – con il pensiero rivolto al cammino fatto in Champions -riterrebbe la qualificazione quasi una “disgrazia”, stante l’esigenza di una salvezza da conquistare in serie A; e chi, invece, vorrebbe proseguire sul terreno continentale. Lei, coach, di che partito è?
Il mio giudizio non può che essere diverso rispetto a quello di chi ha avvallato la scelta di giocare la Champions a inizio stagione e ha vissuto tutte le 13 partite disputate. Non posso dunque permettermi di confutare la loro idea eventualmente negativa sull’argomento, posso solo parlare per me. E dico che la coppa finora mi ha fatto comodo. Faccio un esempio: dopo Cremona ero molto deluso dall’atteggiamento della squadra… Bene: due giorni dopo la stessa mi ha dimostrato, contro il Ventspils, di averlo almeno parzialmente cambiato, pur nella sconfitta. In Polonia, poi, abbiamo vinto ed è stato un successo che mi ha permesso di verificare altri progressi. Pertanto mi auguro di poter giocare altre partite oltre alle due rimaste in calendario, ma ciò non significa che la decisione di fare la Champions a inizio anno non sia stata probabilmente negativa per le sorti di Varese.
Questione Luca Campani, riguardo al quale, da tempo, non ci sono più notizie ufficiali. Come sta il giocatore? Si può ipotizzare una data di rientro?
No, non ancora: Luca deve fare altre visite e altri accertamenti, specifici e approfonditi. Il suo rientro non sarà immediato. A me spiace molto per il ragazzo, che tutti i giorni lavora intensamente per favorire il recupero, ma siamo tutti consapevoli del fatto che il suo ginocchio debba essere in piena salute al momento del ritorno.
Due anni fa, quando si sedette per la prima volta sulla panchina biancorossa, sottolineò quanto per lei fosse un onore una tale investitura e come le fosse sempre mancato allenare Varese in una carriera pur costellata di esperienze da capo-allenatore assai illustri. Lo stesso spirito sembra aver governato dal primo momento anche questa seconda avventura sotto al Sacro Monte…
Sono carico come una molla, effettivamente. Perché qui c’è un ambiente molto bello: esco dalla palestra stanco, ma ci esco contento. Società, staff tecnico e giocatori mi gratificano: dopo le sconfitte c’è ovviamente un po’ di depressione, ma alle nove del mattino dopo siamo tutti pronti a ripartire. La nostra è una sfida difficile, non voglio dire bugie, perché mira a risolvere problemi che si sono protratti per lungo tempo: sono però convinto che sarà una sfida che vinceremo. L’obiettivo è la salvezza, che spero di conquistare prima dell’ultima giornata. Se sarà necessario, tuttavia, sono pronto a soffrire fino all’ultimo.
In settimana ha incontrato, insieme a Coldebella e Bulgheroni, i consorziati di Varese nel Cuore. Come è andata? Come si è trovato a rapportarsi con una proprietà diffusa invece che con il classico uomo solo al comando?
Mi sono trovato bene, anche perché molti consorziati già li conoscevo. E’ tutta gente molto a modo, con grande cultura sportiva. Durante l’incontro non ci sono state parole fuori luogo e le critiche – meglio, le considerazioni fatte – sono state espresse con molto garbo e in modo costruttivo. Averne, di interlocutori così… Questo aumenta il mio rammarico per non aver ancora ottenuto risultati positivi in campionato e il senso di responsabilità che provo davanti a questa situazione: a Varese c’è gente per bene, che merita il meglio. E se mi arrabbio con i giocatori, se cerco di alzare l’asticella, lo faccio per loro. E anche per i tifosi: con me sono gentili, mi ringraziano e io sono contento perché, ringraziando me, è come se ringraziassero tutta la squadra. Per tutti questi motivi il mio impegno da ora in poi sarà solo e soltanto uno: gratificare Varese e la sua gente.
Fabio Gandini
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