Viene dall’Indiana, terra dove si respira basket, e anche per quello è – probabilmente – il giocatore più completo a livello tecnico dell’Openjobmetis di Tom Bialaszewski. Tiratore preciso, difensore affidabile, rimbalzista esplosivo: non è un caso se Sean McDermott, 27 anni, è apprezzato senza riserve dal pubblico di Varese.
Lo abbiamo incontrato al Centro Campus, prima di una sessione di allenamento facoltativa, alla quale però McD non si è sottratto. Perché se Varese si vuole salvare senza patemi, vuole inseguire la speranza playoff e fare strada in Europa, il lavoro da fare è ancora parecchio.
Sean, lei ha giocato in NBA e G-League ma quella di Varese è la prima “tappa” sportiva fuori dagli USA. Qual è il primo bilancio di questa avventura?
«È un tipo di esperienza che ricorda parecchio quella che ho vissuto al college perché qui in Italia tutte le partite contano molto e perché il gioco di squadra è importante per fare risultato. Ovviamente la NBA è il posto a cui tutti aspirano, però io ho sempre pensato di poter affrontare un’esperienza europea e il livello che ho trovato qui è molto interessante».
Cosa le piace di Varese? Come si è calato nella nostra realtà?
«Sono qui con la mia famiglia (moglie e figlia piccola ndr) e ci siamo sentiti accolti a braccia aperte. Siamo contenti perché, al di là del lato sportivo-lavorativo – ci sono tante cose da fare e da vedere. Varese è bella, è vicina a Milano e alla Svizzera e offre molte possibilità. Non sono molto abituato al traffico ma non c’è niente che non mi piaccia».
Sotto la guida di Luis Scola la Pallacanestro Varese si è data una organizzazione interna “all’americana”. Il club è davvero vicino al basket USA da questo punto di vista?
«Sì, credo proprio che siano poche le società europee che lavorano in questo modo. Noi giocatori abbiamo una palestra separata dove fare allenamento, spogliatoi che sono una vera e propria casa per l’intera stagione. Quando entri nella zona riservata puoi davvero lasciare al di fuori tutto il resto e concentrarti solo sull’allenamento e sul gioco».
A dicembre ha dovuto affrontare un infortunio (frattura alla mano ndr) che l’ha tenuta fuori dal campo per un mese e mezzo. Come ha vissuto questo periodo?
«Non mi era mai capitato un infortunio che mi tenesse fermo per così tanto tempo. Il fatto che mi sia fatto male alla mano mi ha permesso, almeno, di continuare ad allenarmi dal punto di vista fisico e quindi non ho perso lo stato di forma. Però non è stato semplice perché, appunto, per me era la prima volta e non sapevo fino a che punto avrei potuto “spingere” per affrettare il rientro».
Tra l’altro la sua assenza è coincisa con il momento più difficile per la squadra.
«Sì, è vero ma solo perché nel nostro sport l’assenza di un uomo nelle rotazioni già impostate, che nel nostro caso non sono lunghissime, costringe la squadra a fare adattamenti o a inserire altri uomini. Ed è chiaro che questo crea problema a tutta la struttura».
A proposito dei suoi compagni: con chi ha legato più a fondo? Come si relaziona, invece, con l’allenatore?
«Inizialmente è più facile legare con gli altri americani perché parlano la tua lingua, ma in questo gruppo nessuno ha un ego individuale che emerge sugli altri. Al nostro interno non ci sono problemi a relazionarsi con i compagni e, anzi, tra le squadre in cui ho giocato Varese è quella in cui ho visto la maggiore coesione. Siamo un gruppo unito. Per quanto riguarda i tecnici, qui ogni persona dello staff ha un ruolo preciso, ognuno lavora su determinate cose e ci si può relazionare con tutti in base ai propri bisogni. Il compito di Bialaszewski è coordinare tutto questo: ha un ruolo difficile ma che non è molto diverso rispetto a quanto ho visto in passato».
Nelle stories che lei pubblica su Instagram emerge come la religione sia centrale nella sua vita. Come vive questo aspetto?
«Sono cristiano, anche se non di confessione cattolica, leggo abitualmente la Bibbia e credo che la fede in Dio sia la cosa più importante della mia vita. La famiglia, il lavoro, il basket, l’istruzione sono tutti aspetti centrali ma vengono dopo Dio. A riguardo non ho storie particolari da raccontare: è una cosa che sento fin da bambino, e che non ho alcuna intenzione di cambiare».
Torniamo sul campo. Quali possono essere le strade della Openjobmetis/Itelyum da qui alla fine della stagione?
«L’obiettivo in coppa è prima di tutto quello affrontare le prossime due partite con Nymburk e superare il turno. Poi, una volta che si è tra le prime quattro, tutto può accadere anche perché possono incidere molti fattori. In campionato mancano dieci partite e sono ancora tante: può succedere di tutto e io credo che Varese abbia la possibilità di vincere più di qualche partita. Se questo accadrà dovremo provare a pensare di andare ai playoff».
A Varese il suo modo di giocare è molto apprezzato dai tifosi. Lei crede che possa restare in biancorosso anche nella prossima stagione?
«Se ci fosse la possibilità di rimanere a Varese sarei molto contento: ho una opzione per il secondo anno di contratto e mi piacerebbe proseguire, anche se poi non dipende solo da me. Di certo sono molto felice dell’apprezzamento dei tifosi: è bello sapere che quando dobbiamo entrare in campo c’è tutto questo attaccamento alla squadra. Aiuta a dare qualcosa in più rispetto alla parte puramente tecnica della partita».
Damiano Franzetti
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