IL COMMENTO DI FABIO GANDINI
Verrebbe voglia di non scrivere nulla, scendere veloci le scale, fiondarsi nel parcheggio, guidare sbattendosene di ogni regola fissata nel codice della strada, infilare il cancello, poi il garage quindi la porta con la velocità di un Red Mamba e infine mettersi comodi, con un bicchiere di Ribolla Gialla in mano, a rivedersi la partita.
Perché oggi Varese è stata azione, meraviglia, bellezza: che posto possono trovare le parole? Che cosa possono aggiungere rispetto a quanto gli occhi non abbiano già carpito, rielaborato e poi mangiato con voluttà?
Il basket è la gloria dell’oggettività, a volte. E allora che scoperta dell’acqua calda sarebbe affermare quanto, brevemente, segue?
Se a una squadra doni un campione, l’orizzonte si rischiara e poi si allarga.
Se a qualsiasi quintetto che si schiera su un rettangolo 28x15 regali la magia del 50% da tre su 27 tentativi, anche l’avversario più temibile non può che andare al tappeto.
Se a un gruppo di guardie e ali più che valide e sparagnine aggiungi un playmaker, lo stesso non può non fungere da moltiplicatore.
Se a una squadra di attaccanti aggiungi un uomo che pensa quasi solo ed esclusivamente alla difesa - perché quello deve fare, perché di quello c’è bisogno, perché con quello cambia tutto, perché è grazie alla difesa che Varese può correre - la notte che si chiamava Cauley-Stein non può che vedere l’alba luminosa e promettente che si chiama Spencer e - forse, speriamo, chi si azzarda a parlare di playoff verrà crocifisso in sala mensa - salvezza.
Ovvietà. Che però hanno richiesto lacrime, sangue e sudore (societario) prima di essere assimilate, prima di ispirare i necessari cambiamenti e prima che gli stessi potessero essere messi in pratica con occasioni da allattare pazienti e sforzi economici non banali.
Ovvietà. Al pari del sostenere che se vuoi giocare un certo tipo di gioco, devi avere gli interpreti per farlo. Spencer e Mannion siano allora l’inizio di una nuova vita anche per coach Bialaszewski, un ground zero anche per chi è stato responsabile di errori e invariabilità, ma anche vittima di fraintendimenti duri a morire.
I fischi, ancora sonori dopo quelli uditi contro Milano, che hanno accompagnato il suo nome alla presentazione delle squadre sono l’unica nota stonata di una serata da ricordare (leggi QUI). Sul conto dell’allenatore la si può pensare - a torto o a ragione - in tanti modi e il cammino di questa prima parte di stagione non può non chiamarlo fra i correi, per giunta nelle prime file: una manifestazione di disapprovazione così crudele, a squarciare un momento in cui l’entusiasmo copriva tutto il resto, è però qualcosa di inelegante, disturbante, profanante.
Coach B non era (parafrasiamo il milanese) un pirla prima e non è un eroe oggi. Per 12 partite c’ha capito poco anche lui, giusto quindi criticarlo, ma ha avuto l’enorme giustificazione di essere un direttore d’orchestra obbligato a seguire uno spartito inadatto ai suoi musicisti. Oggi, solo oggi, deve essere giudicato per la sua musica: lo stesso tempo che è stato concesso alla società, oggi deve essere concesso a lui. Imparando da Scola, da Bulgheroni e dagli altri dirigenti, che non hanno scaricato sul condottiero - nella più facile delle abitudini - gli errori che dovevano essere prima addebitati al mercato.
C’è un momento che forse dovrà essere recuperato nella scatola nera di questa stagione e nella parabola del coach americano: è il dopo Varese-Leiden. Quelle parole che scaricavano i giocatori nel post-partita più drammatico dell’annata ci erano sembrate una resa, un’ammissione di impotenza, uno scarico di responsabilità. E le stigmatizzammo.
Non avevamo capito nulla, in realtà: quel rifiuto di accettare le prestazioni imbarazzanti dei suoi atleti, metabolizzato e poi gridato al mondo, è stato probabilmente il passo più concreto, indispensabile e fragrante dell’affermazione di un ruolo, di una dignità, di una professionalità.
In bocca al lupo, B.
Fabio Gandini
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