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Da Flaborea a Vescovi, la grande famiglia di Marino


Lucaweb

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Scritto da: Mario Chiodetti

VARESE Si cercavano con lo sguardo, anche senza parlare, e da una parte gli occhi sorridevano sempre ed erano forti più delle parole, degli abbracci.

Nelle fotografie in bianco e nero testimoni di infiniti canestri, il Marino racconta di sé con l'espressione degli occhi, la serenità del bel volto padano, bianco e rosso come le mele d'agosto, l'umanità traboccante e antica, fatta di semplici gesti, forse di silenzi. Capellini con Flaborea, con Vittori, Meneghin e Raga, con Zanatta e Vescovi, Polzot, Ovi e Fultz, il professor Nikolic generale della truppa giallo-blu, Capellini in mezzo al campo con la sua andatura decisa, le spalle forti, un grappolo di palloni nella rete a tracolla, Marino con Giovanni Borghi e Toto Bulgheroni, sembra di sentire l'odore di gomma e sudore, di olio canforato, di vedere gli asciugamani che volano nello spogliatoio. «Mio padre mi ha insegnato la tolleranza, ad ascoltare gli altri prima di decidere, mi parlava di come si debbano sempre rispettare le scelte, altrui purché siano motivate e piene di sostanza. Era un uomo buono, di una generosità senza fine. Sono orgoglioso di lui, mi manca tanto».

Beppe, il figlio, ha 50 anni e fa l'architetto, un uomo schivo, con gli stessi occhi chiari del padre e una barba bianca alla Richard At-tenborough. Porta una cartelletta piena di fotografie, la storia per immagini del basket varesino e degli stessi fotografi passati sul parquet di Masnago: Ilardo&Vezzoli, Broggini, Meazza, Faoro, bianconero sgranato anni Settanta, i capelli già bianchi di Marino (nei geni di famiglia) e molti più sorrisi. «Era nato a Cremona il papa, nel 1915, arrivò a Varese con la famiglia e fece tanti lavori prima della guerra. Sperava di essere riformato, aveva un piede con sei dita, ma la sorte gli riservò sette anni tra fronte greco-albanese, era barelliere e infermiere, e prigionia in Germania, in campo di concentramento: montava armi da guerra, lui l'uomo più pacifico della terra.

Tornò per fare l'infermiere alla Clinica Rovera e poi all'Inail, ma la sua vita cambiò all'improvviso, nel 1950, quando conobbe un dirigente della Pallacanestro Varese. Incominciò come massaggiatore, smise nel 1992, quando morì», ricorda Beppe Capellini.

Storm, Ignis, Mobilgirgi, Turisanda, Star, Ciao Crem, Emerson, Di Varese, Cagiva... le maglie allineate nello spogliatoio, l'attenzione maniacale a che tutto fosse in ordine, gli asciugamani sistemati come in un rito sulla panchina prima della gara, la valigia preparata sul letto di casa e i suoi americani, il Morse, il Thompson, il Yelverton, il Pittman, con l'articolo così lombardo davanti al nome e la voglia di raccontare di loro, come un papà dei figli prediletti. «La nostra casa era un porto di mare, venivano quasi tutti, i più assidui Vittori e Flaborea, posso quasi dire fratelli maggiori, gente di famiglia. Meneghin, Morse, Ossola e Rusconi facevano di continuo scherzi al papa, gli mettevano le saliere in tasca al ristorante e poi gridavano al ladro al momento di uscire.

Ricordo gigantesche spaghettate di mezzanotte nella casa di Gazzada con Vittori e Gavagnin, l'affetto ricambiato con Manuel Raga, un ragazzo straordinario e le goliardate con Flaborea: Nikolic non voleva che i giocatori bevessero vino a pranzo e Ottorino, con la complicità di mio padre, svuotava le lattine di coca cola per riempirle di rosso».

Aveva chiaro in testa il concetto di famiglia il Marino, lui figlio di contadini della Bassa, e quel calore voleva sempre fosse intorno ai giocatori, li coccolava la sera, badava che non uscissero fino a tardi, che non facessero stravizi. La famiglia si allargava a "Giuan" Borghi, che gli regalò la prima "Seicento", poi ai Bulgheroni, e la moglie Mariuccia, oggi ottantenne, era felice di cenare a Natale con i patron e i giocatori, gente così lontana da quella frequentata ogni giorno. «La partita era il rito domenicale, partivamo da casa, papa mamma io e mia sorella Luisella, alle due e mezza del pomeriggio quando la gara iniziava tre ore più tardi. Marino doveva preparare tutto al meglio, voleva che i giocatori non avessero pensieri.

Ricordo le prime sfide nella palestra di via XXV aprile, le trasferte a Roma per le finali-scudetto con il Simmenthal, i tifosi arrivavano con tre pullman. Mio padre lo conoscevano tutti e la cosa, sotto sotto, gli faceva piacere».

Quando il Capellini morì, Charlie Yelverton fermò Beppe per strada e gli consegnò una cassetta: c'erano incise musiche greche, il sirtaki che il giovane Marino ascoltava nei lontani giorni di guerra. Note felici, per un uomo che dispensava felicità.

Mario Chiodetti

Edited by Lucaweb
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