
Una serata speciale, diversa dal solito, che ha visto grandi campioni essere omaggiati e anche emozionarsi, nel ricordo di quei successi che li hanno resi grandi. Ieri sera, al PalA2A (o meglio, al Lino Oldrini, come quando questi campioni ci giocavano), e non poteva essere altrove, le due leggende del basket varesino e moderno Dino Meneghin e Gianmarco Pozzecco hanno ricevuto dal consiglio comunale e dal sindaco Galimberti la cittadinanza onoraria di Varese, perché “grandi uomini e grandi sportivi, con i loro meriti e le loro imprese sportive hanno scritto pagine indelebili nello sport varesino e italiano”. In un clima nostalgico e famigliare, è stato insignito per primo Dino Meneghin, pivot ed emblema della Ignis dominatrice degli anni sessanta e settanta, in Italia, in Europa e anche nel mondo. Dopo un breve videoclip che ripercorreva le sue giocate, Dino ha pronunciate parole sentite, toccanti, dimostrandosi un grande campione anche a livello umano, queste le sue dichiarazioni:
“è un grande onore, per certi versi inaspettato, ma che mi rende felice per ciò che abbiamo fatto. Perché sì, magari io ero il giocatore più rappresentativo, ma tutta la squadra era formata da grandi campioni, davvero un gruppo affiatato. Era il gruppo la nostra arma vincente; quegli stendardi appesi non li ho vinti io, li abbiamo vinti insieme. Non si diventa a caso la squadra che offriva la migliore pallacanestro europea, se non mondiale, la squadra capace di arrivare per dieci anni consecutivi in finale di coppa dei campioni, senza un gruppo, senza giocatori forti, senza allenatori e dirigenti (che colgo l’occasione di ringraziare) capaci, e senza dei tifosi meravigliosi. La cosa più importante era la grande umanità di queste persone, la bellezza delle relazioni, il rispetto, la passione che ci unisce ancora. E non dovete ringraziarmi voi e darmi un premio, ma io ringraziare voi per quello che mi avete fatto vivere, per le emozioni vissute insieme, per le vittorie, per i sacrifici, per i bei momenti passati insieme, grazie di cuore. E se posso, chiederei a voi giunta comunale, un piccolo favore, umilmente: se è possibile dare anche ai miei compagni questo riconoscimento, perché anche loro sono simbolo di quegli anni, sono loro che hanno permesso di scrivere quelle bellissime pagine di storia, sportiva ed umana.”
Parole importanti quelle di Meneghin, che ha dimostrato ancora una volta la sua straordinarietà.
E anche noi di Varesefansbasket eravamo presenti, e tra skysport, raisport e 7laghi, ci siamo fatti avanti per rivolgere qualche domanda a Dino e al Poz.
Queste riportate le domande rivolte a Meneghin, poco prima della cerimonia.
Come si sente a ricevere un riconoscimento così speciale e prestigioso?
È innanzitutto una grande occasione per vedere persone che non incontravo da anni, e poi è un’onorificenza che non mi aspettavo, quindi ancora più gradita, ma sinceramente un po’ fuori luogo, perché il mio non è uno sport singolo, ho fatto uno sport di squadra, e quindi insieme a me, oggi, idealmente, ci sono tutti i miei compagni di squadra, i dirigenti, gli allenatori, il pubblico che ci ha sempre sostenuto, specie nei momenti più difficili; basta vedere gli stendardi che sono appesi lassù. Gente con cui ho avuto il piacere di condividere quegli anni di successi, sensazioni incredibili ed irripetibili. Se non si lavora insieme, se non si ha un unico scopo, un’unica passione senza invidie e gelosie, non si va da nessuna parte.
Che cambiamenti hai notato, che evoluzione vedi nel basket, che differenze tra la pallacanestro da te giocata e quella di oggi?
Ma guarda, io ho ancora a casa le pellicole in bianco e nero che ogni tanto ho il piacere di guardare… ed è sicuramente uno sport diverso da quello praticato oggi. Il basket di adesso è molto più veloce, tecnico, più forte fisicamente, più rapido, si gioca ad un’intensità diversa. Si gioca per fortuna in palazzetti migliori, parquet migliori, scarpe e attrezzature migliori, la preparazione fisica è molto più mirata e fondamentale. Insomma, è cambiato in meglio in molti aspetti… l’unica cosa che non mi piace tanto del basket odierno è quest’apertura totale a tutti gli stranieri; una volta Varese, Cantù, Milano, erano squadre che vivevano e vincevano grazie al loro vivaio che cresceva in casa, dando tempo di creare un gruppo unito, compatto, la possibilità di affezionarsi. Adesso sembra quasi di essere in un hotel con una porta girevole, dove molti giocatori vanno e vengono, creando anche confusione nei tifosi. Io ho giocato a Varese per 15 anni, e con me altri miei compagni, e la gente aveva modo di affezionarsi e identificarsi con te, gioire e soffrire insieme. Adesso andare a una partita e come andare al cinema, a vedere uno spettacolo, paghi il biglietto e se ti piace applaudi o fischi. Sembra quasi che manchi quest’umanità che c’era ai nostri tempi.
Lei ha giocato a livello agonistico dai 16/17 anni fino a 44, tanto da giocare contro suo figlio; qual è stato il segreto di una carriera tanto longeva?
Beh innanzitutto ho avuti sì diverse fratture, ma mai decisive, quindi diciamo che il fisico ha retto bene (ride, ndr), con anche un po’ di fortuna, vedendo atleti con un talento straordinario ma stroncati da infortuni; poi ho giocato in squadre che puntavano a vincere, a Varese e Milano, dove se arrivavi secondo era un fallimento, quindi la spinta emotiva e la voglia di fare e la tensione erano sempre quelle di vincere. Ma soprattutto la passione: io ho amato il basket in maniera folle, quindi non mi è mai pesato allenarmi, fare sacrifici o fare fatica per raccogliere le vittorie, anzi era per me una gioia. Adesso per restare in forma devo pagare per andare in palestra, una volta stavo bene, vincevo e mi pagavano anche
Tra poco anche le domande e le parole di Pozzecco, a cura del mio collega Matteo
Giosuè Ballerio
Progetto liceo classico Cairoli con Varesefansbasket
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