
Immaginatevi una storia di basket raccontata con il dono della tridimensionalità e dell’autenticità. Le immagini hanno i variegati colori delle canotte, con una netta prevalenza del verde griffato nord-est, e la plasticità ovattata di corse per il campo, scivolamenti laterali, arresti e tiri (imparati stando seduto su una sedia, con il piede rotto) e retine deformate da cesti puntuali e quasi sempre decisivi. Le parole non sono quelle dei giornalisti, non sono il verbo di osservatori esterni, ospiti casuali sulla scena, professionisti della narrazione: appartengono ai colleghi, ai maestri, agli amici e, come tali, hanno in dote la condivisione di attimi vissuti sullo stesso palco. Pura. Vera. Appassionata e appassionante. Poi immaginatevi un luogo che faccia da scenografia alla storia di cui sopra, una cattedrale vuota e silenziosa che per una mattina si inchina, nella sua maestosità, a un campione nel passo d’addio. Un privilegio: «Massimo, il fatto che tu concluda proprio qui la tua carriera è un onore per questa società. Personalmente ti ringrazio».
Quel verde unico
L’inchino è di Toto Bulgheroni ed è tra i fiori più belli del bouquet emozionale che ha contraddistinto la giornata di ieri. Massimo Bulleri lascia il basket in mezzo alla famiglia che si è scelto, quella della pallacanestro: padri, madri, fratelli sono venuti da ogni parte d’Italia per stringergli la mano. Lui è in mezzo e ha già dismesso la tuta d’ordinanza, in luogo di un completo nero in cui la sua anima d’atleta sta inevitabilmente stretta. E lì, combattuto tra l’agio dell’abbraccio fragoroso di chi lo ama e il disagio del pudore davanti alla cascata di sentimenti che si impilano uno sull’altro, lunghi praticamente vent’anni. Ciò che per tutti gli altri presenti è una favola da gustare, per lui è contrasto, è gioia ma anche dolore.
Lo sfondo, allestito lungo la linea di centrocampo (un guerriero “muore” sempre sul terreno di battaglia), è nelle maglie di Treviso, Brindisi, Varese e Milano, tra le più importanti della parabola agonistica. La voce guida è quella di Simone Fregonese, addetto stampa ai tempi della Benetton, che passa subito la parola a coach Renato Pasquali, “la chioccia” del Bullo. Il primo capitolo della storia sono gli inizi: «Il PalaVerde si innamorò di lui in una partita di Coppa Italia: c’era un -20 da recuperare e tutti ammirarono questo scricciolo che come una scheggia impazzava per il campo. Massimo si è sempre fatto trovare pronto al passaggio dei treni del destino. Per esempio quando Mike D’Antoni venne a vederlo a Livorno, poi a Forlì, dove lo presi chiedendolo in prestito a Maurizio Gherardini (lui mi rispose: «prendilo, tanto da noi non gioca mai...) perché si fece male Di Lorenzo: in una gara ne fece 12 in faccia a Ginobili e per lui si riaprirono le porte di Treviso. Bulleri è sempre stato uno da mandare via dalla palestra, uno da 150 tiri dopo ogni allenamento. Quando si fece male al piede, infortunio che lo costrinse a stare fuori per 5 mesi, ogni mattina andavamo sul parquet e lui si metteva a tirare seduto su una sedia, proprio perchè non poteva camminare: ribaltammo la sua tecnica, il famoso arresto e tiro nacque lì».
Gli anni in questione accarezzano la fine di un secolo e l’inizio di un altro: dopo la gavetta al Gira, a Mestre e a Forlì, la Benetton se lo riporta a casa, da campione pronto ormai a sbocciare, scalpitante dietro a una leggenda come Petar Naumovski . Alla Ghirada incontra capitan Denis Marconato. Compagno, fratello: «Il nostro è un sogno nato e cresciuto insieme - dice Denis - Il feeling che ci legava si vedeva in campo: difficile trovare al giorno d’oggi dei pick and roll come i nostri, difficile trovare oggi un giocatore come lui».
Azzurro cielo e argento
Nel frattempo c’è un altro colore che inizia a reclamare i suoi servigi di playmaker capace di abbinare magistralmente l’ordine della regia alla pericolosità offensiva: è quello del cielo. Il 22 novembre del 2000, a Vilnius, l’esordio in Azzurro: «Boscia Tanjevic controllò che non fosse più basso di lui (l’altezza dei giocatori è sempre stata un pallino dell’allenatore montenegrino ndr) e poi diede l’ok - racconta Alberto Mattioli, storico consigliere Fip con delega alle squadre nazionali e oggi presidente della sezione Lombardia - Massimo segnò 19 punti in quel suo primo match: era già pronto. Delle Olimpiadi d’argento ad Atene tutti ricordano la semifinale contro la Lituania: io oggi, invece, vi parlo dei quarti contro Portorico. Lì Bulleri fece il suo capolavoro, fu il top scorer, ci consegnò la qualificazione. Non ho mai visto una “faccia di tolla” come lui, eppure una volta l’ho visto piangere: fu quando Tanjevic gli disse che non sarebbe andato agli Europei in Turchia. Alla fine capì, andò ai Giochi del Mediterraneo e si portò a casa un bronzo».
Nazionale uguale Carlo Recalcati: «Subentrando a Tanjevic fui gravato del compito di ricostruire un gruppo che perdeva in un colpo solo gente come Andrea Meneghin, Myers e Fucka. Il Bullo contribuì alla ricostruzione. Vi confesso una cosa: Bulleri è stato il giocatore che nel 2003 mi ha convinto a lasciare fuori Pozzecco dalla selezione prima degli Europei di Svezia. Quella squadra aveva bisogno di riconoscersi nella sua leadership». Già, leader. Dentro e fuori dal campo: «Come quando, sempre in Svezia, ci trovammo all’aeroporto per un trasferimento dopo una partita impegnativa e aspettavamo che la squadra israeliana liberasse l’aereo. Alla fine non c’erano più facchini e io mi chiesi come avremmo fatto con i bagagli e tutta l’attrezzatura. «Ci penso io, coach», mi disse lui. E si mise a dare l’esempio. Come ha sempre fatto».
L’ultima tonalità di azzurro la pennella Dino-Mito Meneghin, iniziando da una battuta delle sue: «Perché tu, Righetti e Basile vi ritirate così giovani? Scherzi a parte, non mi sorprendo che Bulleri sia diventato un campione: fa gli allenamenti con la stessa intensità con cui gioca una finale. Se devo fissare un’immagine della sua carriera cito il nostro abbraccio dopo Italia-Lituania: lì c’era la gioia di un uomo consapevole di aver fatto felice l’Italia intera. Ora che non giocherà più, non lasciatelo in disparte: nel mondo del basket deve esserci ancora spazio per la sua intelligenza e per la sua forza d’animo.
Biancorossa la ciliegina
«Grazie per gli insegnamenti che mi hai lasciato. Giusto ieri mi hai detto, riferendoti a un nostro giovane: ricordati che in una squadra c’è bisogno di tutti, dal primo all’ultimo. E tutti meritano il tuo rispetto». È capitan Giancarlo Ferrero a introdurre il capitolo finale, le cui righe raccontano il valore della riconoscenza. La riconoscenza di Varese: «Anche da noi si è fatto trovare pronto - prende la parola Attilio Caja - Contro Pistoia, forse la partita più difficile della nostra risalita, Maynor aveva problemi di falli e Bulleri, chiamato in causa, ci ha dato sicurezza. Tutti i compagni lo hanno apprezzato, sia per la conoscenza del gioco, sia a livello personale. Grazie di cuore, Massimo».
Toto Bulgheroni corrobora: «Vi confesso che all’inizio quasi temevo a tenerlo da noi: Masnago lo aveva “apprezzato” per anni come avversario ero preoccupato che il pubblico non lo avrebbe accettato. Invece è andata molto diversamente: e questo, se mi permettete, è un orgoglio e lo dico da varesino. Merito suo, merito di tutto quello che ha fatto».
E pensare che «no, Bulleri è qui solo per allenarsi. Non farà la squadra quest’anno...». Il destino, come sempre, aveva piani diversi. Sette mesi più tardi, qualche arresto e tiro e qualche bomba più tardi, una Salvezza più tardi, Massimo Bulleri sembra non aver mai giocato in nessun posto se non a Varese. A proposito: grazie, campione.
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