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Ciao Karl


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Difficile comprendere come, pur conoscendo i pericoli, si possa arrivare a mettere in gioco la propria vita.... Forse solo chi

si è misurato con questa grande passione può comprendere sino in fondo.

Questa nuova morte ha riacceso in me il ricordo ed il dispiacere per la scomparsa di " Gianni" , alpinista della val Maggia....

Condivido con voi l'articolo di Fiorenzo Dadò in sua memoria in quanto ci sono passaggi estremamente toccanti e che possono interpellarci.

“Ognuno di noi ha un suo sogno da realizzare, una meta da raggiungere, di cui solo se stessi e il proprio cuore può valutarne l’importanza e capirne il valore

GIANNI, UN PICCOLO GRANDE UOMO

Non voglio dire che le montagne abbiano simpatie o antipatie. Le montagne non sono né buone né cattive con noi. Le montagne sono una massa viva. Per noi uomini, esse sono imprevedibili, non perfettamente riconducibili entro i confini della scienza. Non hanno né volontà né sensazioni. Non intendono attirarci, ma non vogliono neppure sbarazzarsi di noi. Per noi uomini esse rappresentano una grandiosa e straordinaria possibilità di compiere delle esperienze. E dato che sono infinitamente più grandi di noi, resteranno per sempre un mezzo pericoloso.

R.M.

Così si esprimeva Reinhold Messner in uno dei suoi libri, narrando della prematura scomparsa del fratello. Salire una montagna fino all’apice, che sia grande o piccola, è un’esperienza fisica e spirituale che può esser compresa in tutta la sua purezza e intensità unicamente da chi quell’esperienza la sta vivendo o l’ha perlomeno sperimentata. La gioia stessa, la straordinaria sensazione di serenità che ne scaturisce, è direttamente proporzionale alla fatica, allo sforzo, alla sofferenza e alla costanza che l’impresa richiede. Una scuola senza compromessi o possibilità di barare, che ci conduce verso profondità fino a quel momento sconosciute, e che permette ad un uomo di scandagliare il proprio corpo e la propria anima oltre il conosciuto. Una via che, una volta intrapresa, non ha possibilità di arresto, senza che la rinuncia non significhi infelicità. Un susseguirsi di partenze e di ritorni, di salite e discese, alla ricerca, sempre presente ed incessante, di un traguardo. Una meta, come materializzazione di un sogno indefinibile, non scritto da nessuna parte, difficilmente spiegabile a parole e neppure imposto da nessuno. Ognuno ha una sua montagna, una sua cima che può cercare di raggiungere, un proprio sogno che può liberamente realizzare, e di cui solo se stessi e il proprio cuore può capirne il valore e valutarne l’importanza. Poi, altrettanto liberamente, ognuno di noi, può decidere se seguire la sua via, impegnarsi seriamente e senza compromessi per realizzare il proprio obiettivo, oppure rinunciarvi.

Gianni ha raggiunto la cima dell’Everest. Il suo sogno più grande si è realizzato. La sua ricerca, la sua ultima esperienza si è compiuta lassù, sul tetto del Mondo, dopo essersi preparato nel migliore dei modi, con cognizione, onestà e consapevolezza e dopo che con tutte le sue forze, ha raggiunto quella grandiosa e quasi inaccessibile vetta. È doloroso perdere un amico. È straziante perdere un figlio, un fratello, il proprio compagno di vita, anche con la consapevolezza e il conforto che ha realizzato un grande desiderio e deve aver provato l’apice della felicità. Ci sembra impossibile che Gianni non ce l’abbia fatta a ritornare. Ed era proprio anche quel ritorno, a preoccuparlo. Glielo leggevo negli occhi, anche se esattamente, a parole, non riuscì o non volle mai dirmi l’esatto perché. Me ne accennò ancora, durante il nostro ultimo incontro qualche settimana prima che partisse. Quando arrivi in vetta ad un Ottomila, disse, tutto svanisce… La tensione della meta scompare di colpo e solo uno sforzo estremo ti permette di girarti e ritornare. Del resto lui sapeva esattamente di cosa parlava, queste sensazioni le conosceva perfettamente, essendoci stato più volte a quelle altezze. Ricordo a Katmandu, un anno fa, quando ci incontrammo con un gruppo di amici. Lui era di ritorno dal Daulaghiri, il suo sesto Ottomila, e noi in viaggio verso il Tibet. Un incontro sorprendente, soprattutto perché del tutto casuale. Passammo due bellissimi giorni assieme, e ci raccontò della sua esperienza. Anche in quell’occasione, ricordo bene che accennò all’imprevedibilità della discesa, e di come sopra gli 8000 è un mondo a sé. Ma la cosa che mi affascinava maggiormente nelle sue parole, era il suo grande amore per la gente che lo aveva ospitato durante i suoi viaggi. Parlava dei popoli del Nepal e del Pakistan con naturalezza, e dalle sue parole e nel suo sguardo si potevano leggere ammirazione, rispetto, desiderio di carpirne le usanze, le intensità emotive preservandone la purezza. A Gianni importava certo la meta, sulla montagna, ma considerava il viaggio tra quelle popolazioni come un dono, del quale abbeverarsi con gioia e riconoscenza. Ne riparlammo durante l’ultimo incontro, e anche in quella occasione espresse felicità nella consapevolezza di rivedere quella gente. Me lo disse con il suo caratteristico fare gentile, quasi disincantato, con la convinzione tipica di chi sa esattamente dove vuole andare. Osservavo i suoi occhi vivi e lucidi dalla grande intensità. Gianni amava la sua vita fino in fondo e apprezzava fino in fondo e allo stesso modo tutto quanto incontrava sul suo interessante cammino. Parlammo per un’ora e mezza. Sapeva che avrei voluto recarmi in Nepal e del mio desiderio di salire l’AmaDablam, una bella montagna sulla quale lui era già stato anni prima, e della quale gli avevo chiesto informazioni. Prima di lasciarci ci abbracciammo e mi chiese che intenzioni avessi. Alla mia risposta per il momento negativa, mi disse con sorprendente chiarezza di non attendere troppo, di andarci, perché la vita corre, e attendere troppo significa in fin dei conti rinunciare a realizzare i propri sogni, con il rischio di non poterlo fare mai più. Riflessioni, le sue, che oggi mi risuonano nella mente con insistenza, mentre non riesco a non pensare all’immensità della sua gioia nel momento esatto in cui ha toccato il culmine estremo del Mondo, realizzando il proprio sogno con quest’ultimo imprevedibile ma definitivo tributo alla vita. Quello di un uomo che ha creduto fino in fondo in se stesso, con umiltà, bontà e riconoscenza, e che con pazienza, serietà e costanza, giorno dopo giorno, ha percorso un cammino ricco di insidie, sofferenza e di difficoltà, fino al suo ultimo grande compimento, tra le montagne che tanto ha amato....."

" Gianni è arrivato in cima, ma non ritorna ... lui è rimasto lassù. Anche un po' il nostro cuore.

E' stato deposto dai suoi amici sherpa nei pressi del Colle Sud a 7900 m, dove l'aria è sottile e dove i venti che nascono dalle sconfinate praterie del Tibet scendono impetuosi versi le valli del Nepal, scendono ancora fino alle foreste e ai deserti dell'India, per poi disperdersi in mille piccoli soffi verso i mari e le distese di sabbia d'Arabia. A volte i venti dell'est arrivano fino a noi. Se saliremo sulle nostre montagne, quelle che lui tanto amava, se presteremo attenzione e ci andremo anche noi con il cuore, come lui sapeva fare, un giorno o l'altro potremmo sentire la sua voce."

Roberto Grizzi e compagni di viaggio

Luna

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Difficile comprendere come, pur conoscendo i pericoli, si possa arrivare a mettere in gioco la propria vita.... Forse solo chi

si è misurato con questa grande passione può comprendere sino in fondo.

La montagna chiama.

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Difficile comprendere come, pur conoscendo i pericoli, si possa arrivare a mettere in gioco la propria vita.... Forse solo chi

si è misurato con questa grande passione può comprendere sino in fondo.

Ho praticato un po'.

Ho letto un paio di libri di Bonatti ed altri.

Abbastanza da capire che "Quella è la loro vita", non me lo spiego completamente ma l'ho capito.

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L'alpinista, che ha scalato tutti gli 8mila della terra, contesta l'intervento

De Stefani: «Soccorso vergognoso»

«Chi tenta questa imprese conosce i rischi che corre. Keher e Nones non avevano chiesto nessun aiuto»

ROMA - Questo soccorso non si doveva fare: sbagliato e, soprattutto, contro l'etica dell'alpinismo. L'intervento in aiuto ai due italiani sul Nanga Parbat non è piaciuto affatto a Fausto De Stefani, altro italiano ad aver raggiunto tutti gli 8mila della Terra, anche se la sua conquista del Lhotse nel 1998 con Sergio Martini non è stata certificata.

«UNA VERGOGNA» - «E’ una vergogna incredibile. Si è perso il senso della misura, non c’è più alcun rispetto della dignità umana». De Stefani conosce bene la catena del Nanga Parbat, il Karakorum, e l’Himalaya. E sono molte le cose non gli sono andate giù degli ultimi giorni: dalla "spettacolarizzazione" dell’alpinismo, alla pubblicizzazione di un costoso salvataggio.

KARL CONOSCEVA I RISCHI - «E’ una operazione che non si doveva fare. Karl Unterkircher io lo conoscevo molto bene, sapeva bene i rischi a cui andava incontro» ha aggiunto De Stefani. «Anche Keher e Nones dovrebbero arrabbiarsi perché gli sono stati dati soccorsi senza che loro li chiedessero». Questione di etica della montagna, ma soprattutto di etica per la gente comune.

«LA NOSTRA E' UNA SCELTA, E VA FATTA IN SILENZIO» - «L’alpinismo è una scelta, noi siamo consapevoli dei rischi che corriamo. Non è come l’operaio che va a lavorare per portare a casa uno stipendio perchè deve farlo, e se muore merita al massimo due righe sui giornali», ha continuato De Stefani. Per lo scalatore, «questa spettacolarizzazione, banalizzazione dell’alpinismo ha raggiunto un livello inaspettato anche in Himalaya. Ogni giorno mi vergogno di più». De Stefani trova una figura diversa dalle altre in questa vicenda: la moglie di Karl Unterkircher : «Vorrei dire almeno una parola di omaggio, perchè le va dato atto di una reazione dignitosissima. A fronte di questo, c’è stata la televisione che ha continuato a mostrare le immagini di lui da vivo sul ghiacciaio; una mancanza di rispetto assoluta».

24 luglio 2008

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C'è un qualche guru della montagna che, in buona sostanza, ha detto che dovevano lasciarli al loro destino e che si vergognava per loro.

Chi l'ha detto? Vergognarsi perchè?

Ho letto solo di Messner che diceva che non bisognava mandare su nessuno perchè troppo pericoloso.

Ma questo quando erano ancora in parete. Dopo non ho più sentito.

Rientrare sciando mi pare fosse nei piani originali, probabilmente non con l'elicottero.

Dalla parete ne sono usciti per conto loro, così come per conto loro sono sopravvissuti ai molti bivacchi.

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L'alpinista, che ha scalato tutti gli 8mila della terra, contesta l'intervento

De Stefani: «Soccorso vergognoso»

«Chi tenta questa imprese conosce i rischi che corre. Keher e Nones non avevano chiesto nessun aiuto»

ROMA - Questo soccorso non si doveva fare: sbagliato e, soprattutto, contro l'etica dell'alpinismo. L'intervento in aiuto ai due italiani sul Nanga Parbat non è piaciuto affatto a Fausto De Stefani, altro italiano ad aver raggiunto tutti gli 8mila della Terra, anche se la sua conquista del Lhotse nel 1998 con Sergio Martini non è stata certificata.

«UNA VERGOGNA» - «E’ una vergogna incredibile. Si è perso il senso della misura, non c’è più alcun rispetto della dignità umana». De Stefani conosce bene la catena del Nanga Parbat, il Karakorum, e l’Himalaya. E sono molte le cose non gli sono andate giù degli ultimi giorni: dalla "spettacolarizzazione" dell’alpinismo, alla pubblicizzazione di un costoso salvataggio.

KARL CONOSCEVA I RISCHI - «E’ una operazione che non si doveva fare. Karl Unterkircher io lo conoscevo molto bene, sapeva bene i rischi a cui andava incontro» ha aggiunto De Stefani. «Anche Keher e Nones dovrebbero arrabbiarsi perché gli sono stati dati soccorsi senza che loro li chiedessero». Questione di etica della montagna, ma soprattutto di etica per la gente comune.

«LA NOSTRA E' UNA SCELTA, E VA FATTA IN SILENZIO» - «L’alpinismo è una scelta, noi siamo consapevoli dei rischi che corriamo. Non è come l’operaio che va a lavorare per portare a casa uno stipendio perchè deve farlo, e se muore merita al massimo due righe sui giornali», ha continuato De Stefani. Per lo scalatore, «questa spettacolarizzazione, banalizzazione dell’alpinismo ha raggiunto un livello inaspettato anche in Himalaya. Ogni giorno mi vergogno di più». De Stefani trova una figura diversa dalle altre in questa vicenda: la moglie di Karl Unterkircher : «Vorrei dire almeno una parola di omaggio, perchè le va dato atto di una reazione dignitosissima. A fronte di questo, c’è stata la televisione che ha continuato a mostrare le immagini di lui da vivo sul ghiacciaio; una mancanza di rispetto assoluta».

24 luglio 2008

Questo risponde alla mia domanda.

Non sono loro adoversi vergognare quindi.

Un tantino duro ma per certi versi condivisibile.

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Questo risponde alla mia domanda.

Non sono loro adoversi vergognare quindi.

Un tantino duro ma per certi versi condivisibile.

Diciamo che i "media" ci hanno messo lo zampino ?

Io ho sentito le interviste (Tg2 ieri sera) ai 2 appena recuperati; mi son parsi suonati come due campane..... sarà stato lo spavento.....

Mi è anche venuto in mente che se uno vuol "sparire", la caduta in un crepaccio a 7000 metri è un metodo....... senza voler mancare di rispetto a nessuno, sia chiaro....

Edited by ROOSTERS99
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Boh. Sarò strano, ma in questi casi non capisco né l'esagerazione mediatica né le parole di De Stefani che paiono messe lì solo per fare polemica, sterile al 90%.

Mi limito al rispetto massimo sia per l'alpinista morto, sia per i due sopravvissuti. Credo che quando si parla di imprese simili bisogna sempre pensare al contesto (allucinante per ognuno di noi) e alla "filosofia" che muove questi fenomenali campioni.

f12

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  • 2 weeks later...

Decidiamo di non fare la Buhl: con la neve fresca significava valanghe. Tiriamo una linea dritta e arriviamo ai 5.200. Gnaro ci manda gli elicotteri, che ci fanno arrivare al campo base un giorno prima del previsto. Noi volevamo andare da Karl, ma ci ripetono che è impossibile. Volevamo restare al campo base a recuperare la nostra roba, ma ci portano a Gilgit, dove i giornalisti non fanno che chiederci chi pagherà i soccorsi. Ma l'intervento ha anticipato solo di un giorno il rientro al campo base che avremmo completato da soli. Comincia qui il nostro calvario mediatico. Non avevamo capito il casino che era scoppiato in Italia. L'avessimo saputo non avremmo telefonato da lassù. (Walter e Simon)

da http://www.corriere.it/cronache/08_agosto_...44f02aabc.shtml

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  • 1 month later...

Nones e Kehrer devono versare 33 mila euro per il salvataggio. La Farnesina non paga. «È un'ingiustizia»

Gli alpinisti Walter Nones e Simon Kehrer (Ansa)

MILANO — Alla fine del-l'estate nera dell'Himalaya, il Pakistan manda il conto (salato). I soccorsi a Walter Nones e Simon Kehrer, rimasti per undici giorni sulle pareti del Nanga Parbat dopo la morte del capo spedizione Karl Unterkircher, sono costati 48.594 dollari (circa 33.500 euro). Il soccorso pakistano, Ascari aviation limited, ha intestato e inviato la parcella all'ambasciata italiana di Islamabad, che però non intende pagare. Così il conto è stato girato ai due alpinisti professionisti, con il caldo invito a saldare le fatture al più presto. Facendo salire la protesta dei campioni dell'alpinismo contro Pakistan e Italia, accusate di scaricare sui superstiti il costo di una tragedia.

«Per noi è stata una sorpresa amara — si sfogano Walter e Simon — , non ci aspettavamo di dover pagare tanto per un soccorso che non avevamo neppure chiesto. Noi, dopo la morte del nostro compagno, avremmo potuto scendere con gli sci fino al campo base. Ci sentiamo cittadini di serie B, anche se noi stavamo tentando una vera impresa alpinistica: aprire una nuova via che portava onore al Paese. Un qualunque atleta o turista vittima di un incidente all'estero forse sarebbe stato considerato meglio». Ora che l'Himalaya è preso d'assalto dal turismo di massa e le spedizioni commerciali sono sempre più numerose (spesso con alpinisti inesperti, basti ricordare la tragedia del K2 con i suoi 13 morti e Marco Confortola salvo soltanto per le sue doti alpinistiche), i soccorsi pakistani sono sempre più impegnati. E il governo vuole rifarsi delle spese. Alle regole di assistenza si antepongono quelle del mercato, anche per fronteggiare l'invasione (e gli incidenti) degli scalatori poco preparati. La domanda su chi avrebbe pagato i voli degli elicotteri che nel luglio scorso hanno perlustrato la parete Rakhiot alla ricerca dei due alpinisti l'avevano già posta ad Agostino Da Polenza, che dalla sede bergamas ca del comitato Everest—K2—Cnr aveva organizzato i soccorsi dall'altra parte del mondo. La risposta, in quei giorni concitati, variava tra Farnesina e assicurazione. «La richiesta di soccorso è arrivata dal cuoco del campo base — dice ora Agostino Da Polenza — e adesso devono essere le assicurazioni a pagare». «Quando Agostino ha chiamato le nostre compagne per far autorizzare l'intervento degli elicotteri — precisano gli alpinisti — , Manuela e Marta hanno subito chiesto chi avrebbe pagato. A loro è stato detto di non preoccuparsi, che ci avrebbero pensato l'assicurazione e la Farnesina, che aveva stanziato dei soldi. E a noi è stata ripetuta la stessa cosa».

A fine spedizione, il 24 luglio scorso, a smorzare la polemica su chi avrebbe sborsato pacchi di dollari per quel soccorso molto gettonato dai media ci aveva pensato una nota della Farnesina: «Gli elicotteri non sono costati niente alle casse dello Stato perché le spedizioni sono assicurate». Peccato che l'assicurazione (austriaca) abbia puntato su una postilla pur di non pagare: in sostanza, la copertura non vale per una «prima assoluta». E la parete Rakhiot era, appunto, una prima assoluta. «Pensavamo comunque che i 6.000 dollari di cauzione pagati ai soccorsi pakistani prima della partenza fossero sufficienti per il nostro recupero», ammettono gli stessi Nones e Kehrer. Ora però il cerino in mano è rimasto a loro. Walter appuntato dei carabinieri, Simon falegname e guida alpina. «Pagheremo fino all'ultimo centesimo — dicono — . Qualche amico disinteressato ci aiuterà. Abbiamo deciso così per evitare ulteriori polemiche e per non essere additati come quelli che sono stati salvati con i soldi dei contribuenti italiani ». Forse l'assicurazione che copre le guide alpine risarcirà Kehrer di quindicimila euro. Ma Simon precisa: «Quei soldi andranno a Silke, la moglie di Karl. Accettare quei soldi sarebbe come ammettere di essere stati soccorsi, ma noi siamo solo stati recuperati». «Mi è sembrato — aggiunge Walter — che volessero a tutti i costi portarci a casa con gli elicotteri e alla fine abbiamo accettato il recupero su consiglio di Agostino, per accelerare i tempi. Per noi fare in fretta voleva dire tentare di portare a casa Karl. Invece ci attendeva una conferenza stampa via Skype».

io fossi in loro metterei il tutto in conto ai vari tg che hanno spacciato la notizia come un drammatico salvataggio.

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