Sono i frutti della cultura del lavoro che ha impostato fin dal primo giorno a Varese? «È un concetto basilare dello sport: se i risultati arrivassero dall'oggi al domani sarebbe lecito chiedersi che cosa avevi fatto fino a ieri. Quando sono arrivato, ero consapevole che sarebbe stata solo questione di tempo. Il malato era più grave del previsto: se trascuri i primi sintomi, poi la cura dev'essere più robusta. Sono contento soprattutto per i giocatori, che sono stati messi in croce a lungo per quel che non riuscivano a fare. Le mie richieste in allenamento non sono semplici né lo è il loro impegno: il rispetto e l'apprezzamento che stanno ricevendo in queste settimane, dopo che tutto sembrava sbagliato e da rifare, è la miglior gratificazione per i sacrifici che hanno compiuto».
Ora la squadra ha un'identità, ma ci è voluto tempo e lavoro... «Rispetto a due anni fa le problematiche erano più grosse. Mi ha aiutato molto la vicinanza di Claudio Coldebella e Toto Bulgheroni e la collaborazione dello staff. Io mi sento il regista che coordina tutto il sistema, ma alla base c'è un'analisi minuziosa e un lavoro quotidiano. Prendiamo l'8/8 ai liberi contro Pesaro di Anosike: a fine allenamento O.D. si ferma con Vanoncini e lavora sulla sua tecnica in lunetta».
Come è riuscito a far sposare al gruppo un'identità corale e operaia? «Non era né facile né scontato che gli stranieri accettassero questo sistema. Il percorso prevede anche degli ostacoli: con Eyenga ci sono stati momenti di confronto forte, d'altra parte è facile dire sempre sì e girarsi dall'altra parte, ma è una soluzione di comodo. Per condividere la tua ricetta si passa anche da fasi di scontro».
Si riconosce nella definizione di "aziendalista" legata al fatto di aver utilizzato il roster già presente senza interventi sul mercato? «Far rendere al meglio le risorse disponibili fa parte della professione dell'allenatore: bisogna saper mettere le mani quando ci sono elementi che non parlano lo stesso linguaggio cestistico e tattico. Ogni giocatore ha la sua chiave: sarebbe troppo facile dire "questo non va, dunque cambiamo". Allora sei uno scout e non un coach...».
Dove può arrivare l'Openjobmetis? E vale la pena ragionare sulla continuità futura del gruppo attuale? «Vogliamo vincere il più possibile per chiudere in fretta il discorso salvezza. All'intervallo di domenica ho ricordato alla squadra dove eravamo 4 settimane fa e quanto abbiamo sofferto per uscirne: bisognava ribellarsi all'idea di tornare indietro e rivivere quei momenti difficoltosi. E la risposta dei ragazzi nella ripresa è stata super. Continuità con questo gruppo? Gli ultimi due mesi direbbero di sì, ma ogni partita è un investimento sul futuro e ogni indicazione può essere aggiornata e migliorata. Dunque, è nell'interesse di tutti dare il massimo sino alla fine».
Giuseppe Sciascia
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